manuale inapplicabile

Archetipi e racconti sull’arte d’apprendere e d’insegnare

Una riflessione sul senso del servizio.

5 commenti

di Valeria Vicari (*)

Mi stavo mettendo al computer per scrivere, quando ho deciso che prima di farlo avrei dovuto restare un po’ fuori, e dedicarmi alla cura del piccolo giardino della casa in cui vivo, in campagna.

Leggendo gli articoli di Antonio Ricci e Fabiana D’Onofrio, pubblicati sul blog «Manuale Inapplicabile», nei quali si parla di formazione e del suo senso, dapprima mi è venuto naturale osservare le differenze che possono caratterizzare le realtà lavorative di un’azienda privata e una pubblica, in termini di obiettivi e di strumenti funzionali al raggiungimento degli obiettivi stessi, ma col passare dei giorni ho capito che mi interessava approfondire una riflessione riguardo ad un principio che spesso si contrappone a quello di produttività, e che si sintetizza nel termine servizio, a me molto caro.

Facendo una ricerca sul suo significato trovo un lungo elenco di definizioni, di cui in particolare sottolineo:

  • impegno senza riserve, dedizione totale in favore di qualcuno o qualcosa;
  • essere, mettersi al servizio di qualcuno, di qualcosa, dare piena disponibilità: mettere la propria vita al servizio di un’ideale;
  • l’insieme delle prestazioni fornite alla collettività da un ente pubblico o privato: servizio telefonico, ferroviario, sanitario;
  • servizio sanitario nazionale, il complesso delle strutture pubbliche adibite alla tutela e alla cura della salute dei cittadini.

Trovo poi, a cura di Enzo Bianchi, Priore della Comunità di Bose, un riferimento affascinante: il termine ebraico abad, che letteralmente significa «servire», vuol dire anche «coltivare».

Lavoro presso un Servizio Pubblico nel dipartimento di Riabilitazione dell’Azienda Ospedaliera della città siciliana in cui vivo.
Nel significato che conferisco al servizio pubblico, l’utente è il mio datore di lavoro e il mio dovere è quello di fornire la migliore prestazione possibile a chi ne ha bisogno, oltre che la mia occasione. Ho la fortuna di far parte di una squadra di colleghi che, come me, credono nel valore del servizio pubblico e con cui ogni giorno affrontiamo assurde battaglie per migliorare le attrezzature necessarie per poter competere con le strutture private. Piuttosto, sviluppiamo la nostra creatività per mettere a punto attrezzi artigianali che possano completare il lavoro fatto con le nostre mani. Combattiamo perché non valga il luogo comune che «solo nella struttura privata si può trovare qualità», ma troppo spesso ci scontriamo con problematiche burocratiche e/o personalistiche senza senso, che paralizzano ogni cosa, disperdendo molte energie.

Se ritorno al significato di servire come coltivare, emerge una domanda: coltivare cosa?  Rispetto a questo ambito la risposta rischia di apparire da un lato retorica, dall’altro banale: qualità, dignità, professionalità, competenza, rispetto, responsabilità.

Ma perché quello che vediamo accadere è troppo spesso così lontano da tutto ciò? Perché il cittadino ha perso fiducia nelle istituzioni che proprio da lui stesso vengono mantenute? Perché l’utente si sorprende se viene trattato con rispetto e gentilezza? Ogni giorno vedo calpestata la dignità delle persone, per il solo fatto che si trovano in una condizione di bisogno e non capisco il perché. Mi dico che forse il contatto continuo con la malattia, con la sofferenza, rende necessaria una corazza per non lasciarsi coinvolgere troppo, ma troppo spesso questo si trasforma in una sorta di indifferenza, se non di arroganza. Troppo spesso le dinamiche di potere prevalgono sulle logiche funzionali di un’organizzazione gerarchica in cui ognuno gestisce ciò per cui ha le competenze.

Allora riprendo il concetto di formazione espresso da Antonio Ricci, e mi dico che forse il problema sta proprio dove lui indica: «al di là delle tecniche e delle lauree, sta nell’umano»,[1] e mi permetto di aggiungere, nella direzione e nell’intenzione che ognuno di noi coltiva.

I valori che coltivo mi sembrano semplicemente essenziali e fondamentali, se si crede nell’uomo e nei rapporti che può stringere: il valore della libertà che ricerchi per ognuno la dignità e la responsabilità di essere ciò che è; il valore della bellezza di ogni essere umano in virtù della sua unicità, che ricerchi l’attitudine a uno sguardo capace di provare meraviglia; il valore della riconoscenza per ciò che si riceve; il valore dell’amicizia e della famiglia.

Sono in qualche modo le armi con cui cerco di combattere contro la bruttezza e il disfattismo, l’abuso, la prepotenza e lo spreco che ogni giorno si affermano rischiando di diventare normalità.

Ma sono anche le energie che metto al servizio dell’impegno stabile e direzionato di chi lavora per la costruzione di una consapevolezza che sappia rendere ognuno protagonista responsabile della propria vita.

Per Emmanuel Mounier, filosofo personalista degli anni ’40, la «persona» è l’individuo che si realizza nella comunità, attraverso un impegno responsabile ma anche creativo,[2] secondo i valori di un’etica che Paul Ricoeur sintetizza in tre punti cardine: cura di sé, cura degli altri, cura delle istituzioni.  All’interno di questo percorso di ricerca, egli include la «crisi» come passaggio fisiologico e necessario per individuare ciò che per ognuno è intollerabile e per cercare la giusta collocazione per la propria realizzazione come persona, nel suo impegno e nelle sue convinzioni ed aspirazioni.[3]

Ogni giorno, mi sembra, siamo sollecitati da continui spunti con cui verificare il nostro livello di tollerabilità nei confronti di comportamenti, affermazioni, situazioni, che non possono lasciare indifferenti: è utopia sperare che la conoscenza e l’impegno di pochi possa radicare germogli di cambiamento verso un ritorno a una maggiore sobrietà e cura dei valori dell’etica prima citati?

A volte credo di si, ma credo anche che non ci sia altro da fare.

«Forse fra alcuni anni potremo assistere al fiorire di un essere umano così com’è veramente, nel suo intento di vivere con coraggio, senza dover aspettare che sia abbastanza ben fatto da poter rischiare di mostrarsi. Quell’uomo avrà la dignità di dire chi è, e la sua conoscenza diverrà azione. Questa è l’unica libertà, non ce ne sono altre. Ma è solo l’inizio. L’inizio della libertà, che è un magnifico viaggio senza fine».[4]

Questa la direzione del mio servizio.

Nel suo articolo Enzo Bianchi diceva anche: «Adamo ha ricevuto in dono il giardino con la finalità di servirlo. Abad indica il servizio alla terra e viene tradotto anche con il verbo “lavorare”: servendo – lavorando la terra, Adamo serve Dio che gli ha donato il giardino. Ogni uomo è chiamato a lavorare la sua parte di giardino: è questo il suo servizio».

(vedi articolo intero)

(*) Fisioterapista, direttrice e fondatrice dell’Associazione Katastolè di Ragusa, insegnante dell’equipe Periagogè.


[1] Cfr., A. RICCI, Se Gorgia potesse rispondere. Una riflessione sulla formazione aziendale. Blog Manuale Inapplicabile

[2] Cfr., E. MOUNIER, Il Personalismo, AVE.

[3] Cfr., P. RICOEUR, La Persona, Morcelliana.

[4] P. MENGHI, Figli dell’Istante, ITI, pg.57.

5 thoughts on “Una riflessione sul senso del servizio.

  1. Bello Valeria. In particolare per i riferimenti ai nuovi significati dati dall’etica cristiana. penso che “servire” sia innanzitutto una conseguenza del riconoscere che qualcosa valga la pena di essere servito e coltivato. E’ un partecipare a qualcosa che si rivela perchè non si sciupi. Ogni volta penso a Salieri e Mozart, al film, laddove Salieri piangendo riconosce che nella musica di Mozart si sente la voce di Dio, ma anzicchè servirla quella voce, spreca la sua vita nella rabbia e nell’invidia. Ha sprecato un occasione, forse il senso stesso della prorpia esistenza.
    Grazie Angela Cervera

  2. Brava Valeria, sono un fratello orgoglioso

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